giovedì 17 luglio 2014

"Nulla permane tranne il cambiamento" (Eraclito)

Se è vero, come sosteneva Eraclito, che nulla è permanente come il cambiamento, allora l’impresa che ambisce a crescere deve sapersi trasformare  e per farlo deve riuscire a mettersi in discussione, aprendosi alla novità e all'autocritica. Il problema è che l’autocritica destabilizza e dunque spaventa. Considerate i risultati di uno studio condotto dalla ricercatrice di Harvard Amy Edmonson, che ha analizzato gli errori nella somministrazione di farmaci in 8 unità ospedaliere. Sorprendentemente nel corso della ricerca la Edmonson nota che le infermiere che lavorano nelle unita con i manager e le relazioni di lavoro migliori riportano mediamente anche fino a 10 errori di più rispetto alle infermiere nelle unità che preformano peggio. Come è possibile che le unità eccellenti riportino così tanti errori? 


Dopo due mesi di osservazione partecipante in entrambe le unità la risposta diventa evidente. Le infermiere nelle unità peggiori non segnalavano errori non perché non li commettevano ma perché avevano paura di riportarli. Nelle unità migliori l’aspettativa comune era che tutti (manager e infermiere) riportassero gli errori fatti immediatamente e che ne discutessero le ragioni. Non appena diventava chiara l’origine dell’errore tutti ne venivano resi edotti. Le unità migliori avevano cioè creato un cultura in cui l’autocritica veniva vissuta come  un legittimo meccanismo di apprendimento continuo. In altre parole una cultura in cui “sbagliare è lecito e il silenzio non è sempre d’oro”. 

E’ possibile forgiare una cultura d’impresa di questo tipo senza cambiare le persone che dell'impresa fanno parte? Alcuni miei colleghi studiosi di comportamento organizzativo probabilmente risponderebbero di no. Che i manager che sono stati protagonisti di una crescita difficilmente  sono disposti a cambiare la filosofia operativa in cui hanno creduto per anni e che dunque bisogna essere pronti a scelte drastiche. Personalmente non ho una risposta. Mi piace però pensare che sia possibile iniettare degli anticorpi all'autocompiacimento che gratifica e rassicura quando le cose vanno bene e che poi però compromette la capacità di mettersi in discussione. 


Penso ad esempio a Google e alla celebre regola del 80/20 che garantisce ai dipendenti una sorta di “spazio protetto” in cui sperimentare idee. Penso anche a Facebook in cui tutti i neo assunti prima di entrare in ruolo passano un periodo intensissimo di socializzazione di 6 settimane noto come Bootcamp nel corso del quale i nuovi reclutati (sviluppatori di prodotto, ingegneri, ecc.) vengono socializzati a rotazione all'interno di vari gruppi di lavoro per brevi progetti sotto la guida di un mentore che li segue per tutto questo periodo. L’obiettivo è di contagiarli  con la "Facebook culture"  che si può sintetizzare nel celebre mantra coniato da Zuckerberg “Move fast and break things”. Muoviti, cambia le cose e non avere paura di romperle.


Ecco credo che progettare questi anticorpi e farli diventare patrimonio della cultura aziendale  sia una componente stimolante e imprescindibile della sfida  imprenditoriale perché difficilmente ci può essere crescita senza un ripensamento periodico dei propri modelli di riferimento.